lørdag 21. juli 2012

After the storm

Quello che portiamo in petto non è un cancro enorme. Nonostante tutto il male. Nonostante tutte le ferite, gli sbagli, le grida, gli inceppi, i malfunzionamenti il nero, i tuoni, i colpi. Nonostante tutto. E' un cuore.

Sento le gambe cedere, le ginocchia sciogliersi. La sensazione di essere arrivata con millenni di ritardo. Di essere stata a milioni di parsec dal giusto. Per millenni. Il suo sguardo sbriciolato. Il suo corpo che cede contro il mio, sfinito. Il respiro strozzato. La rabbia che brucia in gola, fra i denti. La sua forza spezzata ma lo sguardo che ferisce con lo stesso orgoglio, con lo stesso desiderio di sempre. Raccogliere ogni briciola di ciò che ho portato dietro e dentro e la spargerla ai suoi piedi. Richiudere la porta della macchina e lasciarci il mondo alle spalle. Il silenzio, mentre fuori i cuori meccanici di un 'Verse inarrestabile scuotono la terra implacabili.

Chiudo la porta dell'appartamento. Una pazzia antica, una disperazione d'annata è incrostata sulle pareti. Non lascerò che accada di nuovo, che succeda ancora. Lo guardo addormentarsi, crollare dentro ad un modo muto, privo di pulsazioni. Un sonno senza sogni, senza incubi, un sonno esausto. Resto sdraiata vicino a lui per un giorno ed una notte, il viso nel suo collo, in attesa della sinapsi del risveglio. Ci spingiamo dentro una spirale di distruzione, passo dopo passo, a denti stretti. Ad ogni giro provo una sensazione nuova, più forte, legata ad ogni suo nervo, ad ogni suo movimento. Si sveglia, e vedo il mondo scrollarsi della sua montagna di polvere e piume. Un universo nuovo spalanca le ali e ci inghiotte.

Il tempo perde significato, importanza, non riesce più a definire i nostri movimenti, a scandire i nostri pensieri. Restiamo a fissarci in silenzio nella più completa e pacifica e stupida gratitudine. A staccare pezzi di noi stessi a morsi, a smembrarci a vicenda. A raccontarci leggende personali, miti privati, a crearne di nuovi. A mangiare cose immangiabili. A immaginare pietra, acqua, cielo, tutti attaccati al soffitto. A scalare una ad una le ferite invisibili. A raccogliere la rabbia in tazze dal bordo rovinato disponendole in file sui davanzali. A urlare. A urlare insieme, fino a svuotare i polmoni e l'anima. Ad affondare uno dentro l'altra, in ogni realtà possibile. A scoprire che nulla importa, quando il respiro è incastrato fra le sue labbra.

Una nuova alba si apre sul nostro catalogo di assenza di ore, giorni, minuti, millenni. Schiudiamo gli occhi, fra le membra il torpore di chi s'accorge che ci stiamo spingendo verso la realtà. Perchè più stai bene, più hai bisogno del dolore vero. Quella sensazione di incompletezza che ti spinge a continuare a lottare, quello schiaffo di verità che ti muove verso ciò in cui credi.

Le mani fra i pannelli ed i cavi, sento la voce di Red raccontarmi che non è cambiato nulla. Che la guerra continua, spalla contro spalla con chi sa quello che sai tu: ce la faremo. Le mani fra le spie e le matrici, sento la voce di Jack. E la voce di Jack non è più l'inverno. Avverto un tepore improvviso, il metallo dimentica la sua freddezza. Mi fermo. Guardo le mie mani, piene di calli, tagli, macchie. Guardo la sua ferita, il suo braccio. La luce nei suoi occhi che muta come la prateria muta sotto il movimento incostante delle nuvole. Ci guardiamo, mentre svuotiamo pezzi minuscoli di quello che siamo nell'aria, e li osserviamo volarci contro e poi lontano nella notte dei canyon di Safeport. Mentre ritroviamo la strada di casa. E casa non si trova in questa era. Guardiamo avanti.

Scendo in città, verso l'officina. Aspetto che dormano tutti. Che anche l'ultima luce sia spenta. Non ho voglia di discutere con Joe. Mi infilo nel corrioio buio, lo percorro fino alla sua porta. Conosco bene queste pareti, le ho sfiorate, ci ho sbattuto contro una volta di troppo. Apro la porta, lei è nel letto. Ha gli occhi chiusi. Faccio un passo avanti. Ha la faccia più scavata, la pelle più stanca. Sento l'anima accartocciarsi dentro, la gola bruciare, faccio fatica a respirare. Resto così per una manciata di minuti che sembrano eterni. Poi, un passo indietro. Sto per voltarle le spalle quando apre gli occhi. Li apre di scatto, e mi fissa. E' come se stesse fissando il muro, o una statua, o il nulla. Mi fissa, e non mi vede. Chiudo gli occhi. Magari la realtà si dà una mossa e scompare. Non ce la faccio a riaprirli. Mi volto, esco, chiudo la porta. A occhi chiusi. Recupero le mie cose come una ladra. Devo uscire, devo respirare. Cammino per le strade di Safeport come l'ultimo dei disperati, per ore. Poi mi arrampico sul cornicione della torre del porto. Quello su cui ho conosciuto Jim. Quello dove è un po' cominciato tutto. E il sole appare d'improvviso, accendendo le nuvole violacee. L'alba di Sunset Tower è uno spettacolo a cui pochi danno credito. Lo fisso fino a bruciarmi gli occhi. Concedo a me stessa di essere una vigliacca, oggi. Di rallentare, e di pensare al sorriso che mi solleva anima e corpo con un tocco. Mi chiudo nella mia bolla, rimando la realtà a domani.  La mia mente affonda dentro di lui.

And there will come a time, you'll see, with no more tears.
And love will not break your heart, but dismiss your fears.
Get over your hill and see what you find there,
With grace in your heart and flowers in your hair.



Quello che portiamo in petto non è un cancro enorme. Nonostante tutto il male. Nonostante tutte le ferite, gli sbagli, le grida, gli inceppi, i malfunzionamenti il nero, i tuoni, i colpi. Nonostante tutto. E' un cuore.

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